Possono uccidere i sogni? E se sì, è meglio morire sognando o salvarsi e tornare alla realtà “dove non c’è sole, né gioia... ma solo notte, tristezza e malattia...”? La risposta sarà ovviamente scontata per un autore come Hugo Pratt, disegnatore di Corto Maltese (ma non solo...) e di tutta la romantica, malinconica, introspettiva saga di questo marinaio in giro per il mondo, dai Caraibi all’Argentina, dalla Cina e dal Giappone all’Europa (ma l’itinerario maltese è forse qualcosa del tutto opinabile e forse anche non definibile, quasi come il suo “itinerario” genealogico, frutto di numerosissime commistioni di culture tra le più disparate).
Ed è nel Tropico latinoamericano che è ambientata La laguna dei bei sogni (ed. tascabiliLIZARD 11, 1998), storia distaccata (come forse solo La conga delle banane) da quella principale, o forse solamente più lunga, dedicata alla ricerca della favolosa civiltà Mū, pretesto poi per l’esposizione di un coacervo di personaggi tra i più strani e caratteristici e di storie tristi e melanconiche, pur dietro le trame più avventurose o dinamiche del marinaio. Sullo sfondo di un paesaggio fatto da foreste e fiumi tropicali, dove la bellezza si accompagna alla pericolosità, “dove l’Orinoco inventa il suo delta”, è ambientata questa vicenda in cui la realtà viene trasfigurata in sogno, dove la morte diventa l’unico momento possibile per ripensare al passato e poter infine aspirare e raggiungere quella gloria in vita sempre cercata e mai raggiunta per quei limiti così caratteristici dell’essere umano.
In una delle infinite lagune del fiume, “un uomo bianco è malato. Sta sulla riva della laguna dei bei sogni. Dev’essere pazzo”. Corto Maltese (d’ora in avanti, C. M.) non può fare a meno di cercare di salvarlo ma, raggiuntolo, si trova impossibilitato ad aiutarlo per una “ragione che non si può discutere” : il tenente inglese Stuart “non ha più le forze per viaggiare”, come a dire che non ha più la forza di combattere, di opporsi, di mettersi alla prova, di rischiare, lui che, soldato appartenente ad un “prestigioso reggimento”, quello degli “Artist Rifles”, ormai è stato sconfitto. Sedutosi comodamente e già in preda alla febbre, ecco che, sempre nella cornice tropicale fitta di fiori rigogliosi e variegate e grandi farfalle che con il loro volo riempiono gli spazi delle vignette, incominciano a sopraggiungere i personaggi-chiave della sua vita, che determinarono, in un modo o in un altro, la sua sconfitta nella battaglia della vita. Ad essi dunque, definiti con quell’uso tanto caratteristico di Hugo Pratt del chiaro-scuro molto forte e dei tratti nitidi e decisi, viene dato il compito con il loro apparire di concludere quei capitoli che evidentemente erano rimasti aperti o non soddisfacentemente conclusi, con un uso talmente “prepotente” e cosciente del potere trasfigurante e virtualmente demiurgico dei sogni da suggerire un rapporto conflittuale con la realtà ed il proprio passato.
Il primo è il colonnello Leighton, zio della sua fidanzata, Evelyne. Il plotone che il tenenete Stuart comandava durante la prima guerra mondiale, come poi si scoprirà, è stato massacrato a causa della sua viltà di fronte ad un famigerato tank, un carro-armato tedesco. Bene, come gli confermerà la seconda apparizione, ripagherà con la vincita ai cavalli i soldi rubati all’esercito disertando e quindi, sempre “con stile naturalmente”, come nel suo vaneggiare assicura al colonnello, sistemerà anche la faccenda del tank (“Magnifico, Stuart, magnifico. Questo è avere stile ed essere un buon sportman”). Dopo la parentesi con la madre (apparsa in mezzo alla foresta seduta al suo tavolino, sorseggiando tè con un’amica) che, con il ruolo quasi di contraltare, lo sconsiglia dallo sposarsi con Evelyne (ma aggiungendo “Era proprio necessario ucciderla?”), ecco che, cantando una dolce canzone forse inventata all’occasione e destinata ad un amico di cui successivamente si potrà intuire l’identità, gli si offre una porta (sempre in mezzo ai lussureggianti cespugli tropicali), che quasi viene aperta dalla visione successiva, che lo paralizza: il tank con la croce tedesca lo fronteggia. E dunque giunge il momento catartico della riparazione a quella che sembra essere considerata l’azione peggiore, un’azione di viltà da una parte, cui si aggiunge dall’altra un cosciente mancato soccorso a chi si scoprirà gli era stato preferito dalla fidanzata (l’amico della canzone che introduce questo momento). Tutto quindi finalmente rivive, dal tank, causa scatenante delle debolezze tutte umane del tenente, agli uomini del suo plotone, nella realtà massacrati per colpa sua ma che ora aspettano proprio lui, fiduciosi in un suo decisivo comando, e al suo amico, che quasi sembra non curarsi del passato, come se il sapere che anche lui avrebbe “fatto lo stesso” potesse in qualche modo redimerlo. Ma ciò non è sufficiente, non basta e lui ne ha coscienza: “E’ impossibile... siete troppo comprensivi con me... volete umiliarmi. Addio, Driscoll. Farò il mio dovere... attaccherò il tank tedesco...”.
Il nemico viene annientato ma la puntura di un insetto visionariamente percepito come un colpo di pistola nemico (procedimento attuato forse anche successivamente, con un'altra puntura, quella datagli dal suo superiore mentre gli appunta sul petto una medaglia al valore per l’azione compiuta) lo porta quasi ad una visione più globale dell’azione, a comprenderne altre conseguenze e risonanze, distinte da quelle più ovviamente immaginabili. Dalle nebbie dell’esplosione giunge il tenente tedesco che comandava il carro-armato tedesco abbattuto (il corrispettivo tedesco di sé stesso?), aprendo una delle scene probabilmente più belle e commoventi nella loro delicatezza, in cui, quasi ricordando il Piero dell’omonima canzone di De André, il militare, sensibile alle situazioni personali (tanto diverse quanto speciali, uniche come la sua privata) che precedono la guerra ma che hanno la sfortuna di imbattercisi e di esserne attraversate, si confronta con l’avversario in un dialogo umanissimo in cui il tenente tedesco, morto a causa dell'esplosione provocata da Stuart, gli porge “una piccola rosa che avevo colta vicino a una casa distrutta dalla nostra artiglieria” e lo prega di farla giungere alla moglie. Il dialogo viene suggellato da una stretta di mano tra persone che si comprendono e che condividono gli stessi valori , così ad indicare una affinità di intelletti oltre qualunque contingenza, come uniti in una superiore fratellanza umana.
Dopo questo primo passo verso il rappacificamento con sé stesso, rimane un ultimo episodio da concludere, un’ultima conferma del suo essere un vero uomo, degno di questo appellativo (e già il colonnello lo aveva definito “eroe nazionale”, così concludendo quel debito verso la nazione ed anche verso i suoi soldati, percepito come ancora da onorare): dietro un enigmatico e simbolico “monticello”, in mezzo ad un cimitero trova la sua fidanzata, che sorridente l’aspetta e che, scoprendo un ennesimo “difetto” così comune all’essere umano, gli comunicherà di avere infine scelto, tra i due pretendenti, proprio lui: “ho capito che avevi le idee chiare” . Si capirà così la reale situazione del lord inglese, dalle idee confuse sulla vita in generale e sulla sua propria vita, che in guerra aveva rivelato la sua “viltà”, o forse solamente la sua inattitudine agli orrori della guerra, decidendo di fuggire via, lontano, fino in America, con la cassa del battaglione. Ma finalmente anche lei lo conforta e con un sorriso gli fa dire le sue ultime parole: “Oh, Dio mio, ... allora sono felice... felice... felice...”. Al termine della storia, sul cadavere del tenente Stuart, ucciso dalle febbri, viene scoperto un distintivo che sembra suggerire qualcosa: come se puntando lo sguardo oltre questa vicenda si potessero scorgere tutti quei reticoli intricati e misteriosi che circondano e intessono il mondo e la vita umana e che, partendo da sperduti angoli dell’esistenza, giungono ad incrociarsi e congiungersi in un unico punto particolare: “Eh, sì! Il nome di una strada di Parigi e il simbolo gitano spagnolo incisi sul rovescio di un distintivo militare inglese trovato addosso a uno sconosciuto nella laguna dei bei sogni dell’Orinoco... ebbene sì... mi incuriosisce...”.
La prima indicazione che viene data all’inizio del racconto è proprio quella del luogo, il fiume Orinoco in Venezuela che, quasi dotato di volontà propria, si “crea” il proprio delta. Si ha dunque fin da subito un’idea di un qualcosa che è altro da noi, com’è ovvio, ma anche altro da come lo si può immaginare o pensare: non è un paesaggio creato ma che si è auto-creato, come isolato dal resto e con leggi e regole proprie. Effettivamente sembra essere questa delle prime pagine una sorta di presentazione dello spazio “scenico”, di rappresentazione della tragedia, in cui C. M. entra per un attimo ad introdurre il protagonista e quindi, uscitone per lasciar spazio all’”azione”, vi ritornerà solo a cose fatte, proprio ad incorniciare e delimitare il tutto. Altro elemento immediatamente evidenziato è la marca dicotomica e dei contrasti che caratterizza a fondo e in vari contesti questa storia.
Partendo dal primo, la contrapposizione tra bellezza e pericolosità: il paesaggio si presenta tipicamente tropicale, dalla flora rigogliosa ed abitata, o per meglio dire infestato da “tutti gli insetti mortali d’America”, “pregno di febbre e di ogni malattia”. Ma l’erba d’altronde “sembra quella dei vostri prati inglesi ben rasati” , le farfalle riempiono ogni tanto gli spazi vuoti nelle vignette assieme a grandi fiori e piante, il paesaggio suscita commenti quali “Dio mio, che bella questa laguna!”. Una descrizione bipolare, quella di un paesaggio vivo ed incontaminato, tanto più vivo quanto più incontaminato; dotato del fascino che può avere un angolo remoto del pianeta, isolato, tanto meno intaccato da presenze esterne, quanto più pericoloso e mortale. Tutto ciò, già a partire dal nome: la Laguna dei bei sogni (se che come dice C. M. “qui, quando si comincia a sognare non ci si sveglia più”). Il dubbio che si presenta è dunque questo: la foresta, la laguna agisce quale un’infida ragnatela che con le sue febbri e malattie intrappola l’infelice visitatore, oppure lo accetta e lo accoglie, dandogli la possibilità di “sognarsi” il riscatto e di trasformare tale sogno in realtà e in redenzione effettiva nel momento solenne ed ultimo della morte?
A suffragare tale idea può venire in soccorso la seconda dicotomia basata su un altro topoi, di antica e già largamente sfruttata tradizione: quella tra selvaggi (qui indios caraibici) e uomo bianco. Numerose sono le attestazioni testuali di questa contrapposizione: fin dall’inizio della storia incontriamo la prima: “Sei bianco: non puoi capire...” e quindi “Chi vi capisce?” infine seguito da “Non capisco!”. Con queste affermazioni, fatte rispettivamente da Stuart e da un indio, si chiuderanno due impossibili tentativi di comunicazione tra l’inglese e gli abitanti della foresta. Ed è proprio l’incomprensione/contrapposizione a segnare il finale, sia quando C. M. non capisce perché l’indio non lo ha avvertito della morte dell’inglese sentendosi rispondere: “quest’uomo era felice...perchè privarlo del suo sogno?” sia nell’ultima vignetta, dove però bisogna sottolineare una sfumatura diversa: ormai la storia è conclusa, una storia inserita in un’altra, più lunga e con la quale nulla aveva a che fare, un inciso. Con quest’ultima battuta C. M. sembra così quasi voler affermare il proprio ordine delle cose. Se prima era lui lo straniero, in senso non solo “geografico”, e quindi doveva accettare un diverso modo di vedere la vita e il mondo, ora è lui che fissa i parametri con quest’esempio di ciò che suscita curiosità, ciò che è importante e che deve essere ricercato nelle strade del mondo; questa volta è l’indio a non saper cogliere il nuovo sistema di valori e a domandare, a chiedere, ad informarsi per poter capire: “Guardi ancora quel distintivo... ti incuriosisce?” (corsivo nostro), interrogativo significativo in quanto l’interesse non sta nella risposta alla domanda reale e retorica, ma in quella sottintesa: “Che cosa può mai interessarti in quell’oggetto tanto insignificante?”. Ormai è lui che è uscito dal suo mondo ed è entrato, e quindi è “straniero”, in quello interiore di C. M., che si sta dirigendo verso le sue prossime storie ed avventure.
Come può dunque (per riprendere il filo momentaneamente interrotto) questo contrasto risolvere il dubbio sopra posto? Sostanzialmente con la sua assenza; e cioè: il rapporto tra il protagonista e gli indios non è di contrapposizione. Prima di tutto occorre far notare che i dialoghi tra le due parti sono sempre molto radi e, soprattutto, inficiati dal dubbio che anch’essi siano trasfigurazioni di qualcosa di diverso ma comunque reale. E’ infatti improbabile che un lord inglese, da poco giunto in America, come pare indicare l’uniforme militare ancora indossata, riesca ad avere un tale livello di comunicazione con gli indios (più credibili sono invece quelli di C. M., data la sua duratura permanenza in questi luoghi); inoltre i dialoghi sono, come dire, facilmente derivabili dagli eventi concreti. Per esemplificare, alla affermazione di Stuart così palesemente fuori luogo che loro, gli indios, non sanno battere il tamburo, uno di questi lo guarda e vi è la risposta: “Noi lo battiamo a modo nostro”, che può essere benissimo espressione di una subitanea presa di coscienza del primo, resosi conto di ciò che aveva detto; successivamente il “Sei un buon amico” è accompagnato da una mano appoggiata fraternamente sulla spalla del tenente ed alla pagina successiva il “Viene qualcuno.” e “Sono quelli che hanno risposto al messaggio del tamburo” dall’arrivo di C. M. Infine, dopo il “Non capisco” di un viso indio comparso sullo sfondo, l’unico momento che potrebbe inficiare questa tesi è quello dove, però, gli “indiani d’America” fanno palesemente parte, sia per logica che per lo stesso tratto del disegno, più dolce e delicato, sostanzialmente diverso, delle allucinazioni del protagonista. In questi momenti dunque essi non si contrappongono a lui ma anzi, muti (o forse parlando linguaggi sconosciuti), con i loro sguardi (aspetto che si approfondirà fra poco) e con i loro gesti, rompono le differenze e fanno entrare il tenente nel loro mondo.
Stabilito e verificato ciò, un altro elemento da notare è come sono presenti gli indios nella storia e nel “regno” onirico del protagonista: essi sembrano statue, fissano sempre e rimangono immobili, in alcuni momenti del delirio appaiono guardando fuori dalla vignetta, come in un primo piano (fuori dal delirio stesso? Il tenente guardando loro che guardano lui, vede forse sé stesso nelle profondità dei loro occhi?) e per brevi istanti riportano alla realtà l’altro, che invece è sempre “mobile“ e in movimento. Sono come dei flash nel continuum del sogno, immobili con i loro sguardi duri e fissi. Questo loro atteggiamento definisce dunque il terzo elemento di contrasto presente nella storia, il contrasto sogno-realtà. Ma in sostanza sembrano quasi dei fari nella tempesta del delirio, che guidano il viaggio del morente verso l’ultima spiaggia, verso quell’abbandono alla donna amata e alla felicità.
Essi dunque possono sembrare quasi la personificazione della foresta, che accolto il tenente (o chiamatolo a sé? Non a caso C. M. gli chiede “ ... se aveva intenzione di uccidersi, perché è venuto tanto lontano?”) lo porta al riscatto di sé nell’unico momento veramente suo, la morte (che, pare importante far notare, avviene alla fine del viaggio durato tutta la notte, prima dell’alba, quell’alba che simbolicamente da sempre è accompagnata dal “risveglio” della ragione), un atteggiamento che lo stesso tenente sembra aver capito e di cui è conscio se, in mezzo al sogno, chiamando a sé gli indiani, dice ciò dopo un iniziale loro rifiuto (“Non è una guerra nostra! ...”): ”Lo so, amici... ma voi mi coprirete con le vostre cerbottane...”, conscio della solitudine del proprio compito, limitandosi dunque a richiedere una “copertura”.
articolo collegato: "Viaggio alla foce dell'Orinoco".